Le persone con disabilità e la scarsità di risorse mediche

Le persone con disabilità e la scarsità di risorse mediche

Se il passaggio da una medicina basata sulla salute del singolo paziente – scrive Nicola Panocchia – a una basata sulla salute della comunità è inteso come sacrificabilità dell’interesse del singolo (salute, vita), questa è una strada pericolosissima, che può portare a derive già ben conosciute e allo sgretolamento del tessuto sociale. Ma privilegiare la salute di un’intera comunità può essere inteso anche come strumento per tutelare le persone più fragili “incluse” all’interno di tale comunità. E questo si può fare solo se la comunità sente e vive queste persone come membri a pieno titolo».

 
le Giungono notizie – da verificare attentamente – che alcuni Stati degli USA avrebbero già deciso che, in caso di scarsità di risorse, in particolare di posti letto in terapia intensiva e ventilatori meccanici, l’occupazione di questi da parte di persone con disabilità gravi anche cognitive o psichiche, debba essere considerata con molta attenzione se non evitata. Le Associazioni americane per la difesa delle Persone con disabilità stanno prendendo posizione contro questa politica (se ne legga a questo e a questo link) [di tale questione ci occuperemo ancora, entro breve, in altra parte del nostro giornale, N.d.R.].
Sono state inoltre pubblicate numerose raccomandazioni di natura etica e clinica sui criteri di allocazione dei pazienti nei reparti di terapia intensiva. Siamo di fronte al caso drammatico di una risorsa scarsa da distribuire a molte persone. Quali criteri adoperare?

In condizioni normali, quando come per ogni altro paziente, anche per un paziente con grave disabilità fisica e/o neuromuscolare, o con disabilità cognitiva, o psichica, è richiesta una procedura intensiva e invasiva (ad esempio rianimazione cardiopolmonare, ventilazione meccanica, emodialisi ecc.), viene valutato se il trattamento è di beneficio per lui, in base alla prognosi, alla gravosità del trattamento, alla qualità di vita, al costo, ai problemi familiari e sociali. Si valuta cioè quella che viene definita “proporzionalità del trattamento”, cioè se bilanciando tutti questi fattori, ci si può ragionevolmente attendere un esito positivo per il paziente.
È questo il principio centrale di giustificazione etica e giuridica dell’atto medico: è lecito solamente quell’ atto medico i cui benefici attesi sono superiori, o almeno uguali, ai rischi previsti.
Del resto, sia il Codice Deontologico della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri all’articolo 16 (1), sia la Legge 219/17 sulle disposizioni anticipate di trattamento (2) vietano il cosiddetto “accanimento terapeutico” (3). Gli anglosassoni preferiscono parlare di “futilità del trattamento”, quando le cure e implicano un’eccesiva gravosità per il paziente, senza portare benefìci apprezzabili in termini di aspettativa di vita e qualità di vita. La proporzionalità e la futilità delle cure devono essere specifiche per ogni singolo malato in uno specifico contesto clinico, e non date a priori.
Tutto questo dovrebbe avvenire nell’àmbito della cosiddetta decisione condivisa tra paziente, eventualmente i suoi familiari e il medico, in un confronto tra le prospettive cliniche secondo le evidenze presenti in letteratura e le prospettive personali, valoriali del paziente. Per le persone con disabilità cognitiva severa si preferisce parlare di “decisione supportata” (Supported Decision Making).
Sempre in situazioni normali, per le persone con disabilità l’accesso alle cure mediche è problematico. In altre occasioni abbiamo evidenziato la presenza di barriere sanitarie ed è stata elaborata una Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale.
Anche i concetti di proporzionalità e futilità applicati alle persone con disabilità sono molto dibattuti. Lo dimostrano, solo per citare i casi più recenti, le vicende di Vincent Lambert, Charlie Gard, Fabiano Antoniani (DJ Fabo).
Una recente pubblicazione sulla “futilità dei trattamenti” e le persone con disabilità del National Council of Disability Statunitense afferma che «le decisioni sulla futilità medica spesso mancano di obiettività e garanzie procedurali, e le raccomandazioni del medico sono influenzate dai pregiudizi sulla qualità della vita delle persone con disabilità. […] Quando un clinico inizia a valutare ciò che “vale la pena” [l’inglese worthwhile, contiene in sé il significato di “idoneo”, “degno”, “meritevole”], questo consente di “contrabbandare tutti i tipi di pregiudizi”. […] I medici considerano la disabilità in connessione con la malattia e le malattie devono essere curate o evitate; nel complesso, i sanitari non vedono la disabilità come una “parte naturale dell’esperienza di vita”».
Sostanzialmente il documento evidenzia che il giudizio di futilità delle cure risente di un pregiudizio legato alla qualità della vita delle persone con disabilità che viene giudicata come “molto scarsa”. E questo perché la qualità della vita viene giudicata su una base funzionale e non sulla base della soddisfazione che la persona ha della propria vita. È la spiegazione per cui nel Regno Unito spesso viene inserito l’ordine di “non rianimare”, nella cartella clinica di persone con disabilità, in caso di ricovero ospedaliero anche per patologie curabili e non avanzate.

Un àmbito in cui possiamo trovarci di fronte al caso di allocare una risorsa scarsa, è quello dei trapianti d’organo. Soprattutto rispetto agli organi salvavita (cuore, rene, polmoni), le risorse disponibili vanno “ottimizzate” sulla base di alcuni criteri: sicuro beneficio per il paziente, prospettive di successo del trapianto in base alla condizioni cliniche del paziente, aspettativa di vita per il paziente trapiantato, criteri sociali quali l’astensione dall’alcool da almeno sei mesi.
Purtroppo anche in questo àmbito vi sono discriminazioni nei confronti della persone con disabilità intellettiva. Ancora un documento del National Council of Disability Statunitense su trapianti d’organo e disabilità denuncia infatti che «nonostante l’esistenza di leggi antidiscriminazione sia statali che federali, continuano a verificarsi discriminazioni basate sulla disabilità nel processo di trapianto di organi. […] L’assunto che le persone con disabilità non siano in grado di conformarsi alle cure postoperatorie ha fatto sì che la disabilità sia considerata una controindicazione al trapianto di organi in molti centri».
La decisione di escludere o inserire in lista d’attesa per trapianto persone con disabilità deve basarsi solo su dati clinici, non sulla valutazione della qualità di vita, del quoziente intellettivo ecc. Infatti, è sempre insito il pregiudizio che dare una risorsa scarsa a una persona con disabilità, significa negarla ad una persona senza disabilità che se ne potrebbe giovare di più.

Veniamo dunque alla questione dell’infezione da coronavirus.
Quali possono essere i criteri per allocare risorse scarse, come i posti in terapia intensiva e ventilatori? E in particolare per le persone con disabilità?
Numerosi prestigiosi Centri di Bioetica e Istituzioni, nonché un numero importante di pubblicazioni hanno proposto linee guida e raccomandazioni. Generalmente, soprattutto nel mondo anglosassone, l’utilitarismo è la scuola di pensiero bioetica su i cui principi si basano questi documenti.
Un documento molto interessante è quello del prestigioso Hasting Center (Ethical Framework for Health Care Institutions Responding to Novel Coronavirus SARS-CoV-2 – COVID-19), nel quale si coglie un punto fondamentale determinato da questa pandemia: il cambiamento del paradigma della pratica medica, che passa da una cura centrata sul paziente a una cura che deve dare «priorità alla salute della comunità al di sopra di quella del singolo paziente nell’allocare risorse scarse».
Alcuni esperti e bioeticisti hanno individuato quattro valori fondamentali, che possono essere interpretati in modo diverso se non opposto (E.J. Emanuel, G. Persad, R. Upshur, B. Thome, M. Parker, A. Glickman, C. Zhang, C. Boyle, M. Smith, J.P. Phillips, Fair Allocation of Scarce Medical Resources in the Time of Covid-19, in «The New England Journal of Medicine», 23 marzo 2020):
– Massimizzare i benefìci prodotti da risorse scarse, ciò che può essere inteso come salvare il maggior numero di vite individuali o come salvare il maggior numero di anni di vita, dando priorità ai pazienti che potrebbero sopravvivere più a lungo.
– Trattare le persone in modo equo, che può essere applicato selezionando casualmente i pazienti (ad esempio tramite una “lotteria”) o da un’assegnazione della risorsa sulla base del “primo arrivato, primo servito”.
– Promuovere e premiare il valore strumentale, dando priorità a coloro che possono salvare gli altri, o a coloro che hanno salvato altri in passato.
– Dare priorità a chi sta più male, intesa come priorità o per i più malati o per i più giovani che vivrebbero una vita più breve se muoiono non curati.

Nelle sue Linee Guida, Il britannico NICE (National Institute for Health and Care Exellence) ha proposto l’utilizzo di una scala, il CFS (Clinical Fraility Scale), per valutare i benefìci che un trattamento intensivo può avere su quella persona. Il documento sottolinea però che il CFS non deve essere applicato a chi ha una disabilità di lunga data, come pazienti con paralisi cerebrale o autismo.
Dal canto suo, la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) ha provato a proporre dei criteri per massimizzare i benefìci per il maggior numero di persone e consumare meno risorse possibili in modo da ampliare la platea dei beneficiari. Tra questi criteri: età, probabilità di sopravvivenza, maggior numero di anni di vita salvata, presenza di comorbidità e status funzionale. Il documento sottolinea che il giudizio di inappropriatezza all’accesso a cure intensive basato unicamente su criteri di giustizia distributiva trova giustificazione nella straordinarietà della situazione [di tale documento si legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Tale documento è stato soggetto a critiche e accusato di ageismo, cioè di discriminazione delle persone anziane. Bisogna tener conto che i medici spesso si trovano a dover decidere in pochi drammatici decisivi minuti, che fanno la differenza, se dover procedere alla rianimazione o all’intubazione di quel dato paziente, e devono decidere se questa procedura è di beneficio al paziente oppure no. Devono quindi avere dei punti di riferimento precostituiti cui rifarsi. Inoltre queste decisioni generano un fortissimo carico di responsabilità e un grandissimo distress morale negli operatori sanitari.
A questo scopo negli Stati Uniti è stata proposta l’istituzione di un Comitato di Triage, composto da clinici esperti, che decida l’allocazione delle risorse e comunichi questa decisone al team medico, al paziente e alla famiglia. Questa soluzione presenta diverse criticità, ma non è quella presente la sede per esaminarle. Ricordiamoci che, anche se purtroppo non troppo diffuso, alcuni ospedali hanno un servizio di etica clinica che potrebbe supportare i curanti nel processo decisionale.
Giustamente è stato scritto che «la vera copertura morale non viene dall’uso di un criterio deciso a tavolino dagli anestesisti, ma dalla fiducia sociale cioè dalla gente che si fida degli anestesisti e delle loro virtù, approvandone caso per caso l’operato» (I. Cavicchi, Scientismo ed economicismo, due facce della stessa medaglia (seconda parte ), in «Quotidiano Sanità.it»).

Come si può intuire, i criteri utilizzati nei documenti citati, anche dove non esplicitamente affermato, non sembrano lasciare intravedere molto spazio per il trattamento intensivo delle persone con disabilità. Come già detto, molto deriva dall’approccio etico e filosofico prevalentemente di tipo utilitarista. Ma ricordiamoci che anche in condizioni normali le persone con disabilità vengono discriminate nell’accesso alle cure mediche.
Allora dobbiamo ancora una volta fare uno sforzo per rimanere razionali ed esaminare alcuni dati e fare riferimento ad altre scelte valoriali.

Sappiamo che la principale causa di morte delle persone con disabilità è l’insufficienza respiratoria e di questo bisogna sicuramente tener conto.
È necessario comprendere l’impatto sulla sopravvivenza a breve e medio termine per quel dato paziente con disabilità in caso di trattamento intensivo e determinare se le cure e i trattamenti medici possono modificare in meglio questo decorso.
Non può essere accettabile che la presenza di una sola condizione di disabilità intellettiva o psichica determini la rinuncia a cure intensive.
Non può essere nemmeno accettabile che il solo giudizio sulla qualità della vita di una persona con disabilità determini la rinuncia a cure intensive.
E ancora, non può essere accettabile che la capacità di essere utile alla società sia l’unico criterio per accedere o rinunciare a cure intensive.
Se esistono le condizioni per non intraprendere o sospendere un trattamento, deve essere garantito un percorso di cure palliative.
Per quanto possibile, bisognerebbe discutere in anticipo con i medici lo scenario di cure intensive, la tollerabilità dello stesso e la prognosi, per pianificare la migliore strategia terapeutica da intraprendere per quel singolo paziente, che potrebbe anche significare non intraprendere trattamenti intensivi.

Non è facile, ma dobbiamo tentare di salvare anche in questo drammatico momento la specificità della cura per ogni singolo paziente e il valore di ogni vita umana.
Il passaggio da una medicina basata sulla salute del singolo paziente a una basata sulla salute della comunità presenta rischi e opportunità: se intesa come la sacrificabilità dell’interesse del singolo (salute, vita) per un interesse superiore, quella che guarda alla comunità è una strada pericolosissima che può portare a derive già ben conosciute, allo sgretolamento del tessuto sociale, alla perdita di fiducia nella classe medica. Ma il privilegiare la salute di una intera comunità può essere inteso anche come strumento per tutelare le persone più fragili che sono “incluse” all’interno di tale comunità. E questo si può fare solo se la comunità sente e vive queste persone come membri a pieno titolo.

* Nicola Panocchia,
Coordinatore Comitato Scientifico Carta dei diritti delle Persone con disabilità in Ospedale.

Note:
(1) Articolo 16 del Codice Deontologico della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri: Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati. «Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei princìpi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato. Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte».

(2) Legge 219/17, articolo 2, comma 2: articolo 2. Comma 2: «Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente».

(3) Il Comitato Nazionale di bioetica definisce accanimento terapeutico: «un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica».

Di Nicola Panocchia da Superando.it del 30.03.2020

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