Le barriere mai rimosse, ora si rischia una condanna

Le barriere mai rimosse, ora si rischia una condanna

FANO. Non più solo una questione di civiltà ma anche una grana legale. Non è da escludere infatti che anche al comune di Fano possa accadere quello che è successo ad un altro comune italiano, condannato in sede di Cassazione per non avere rimosso gli ostacoli che inibivano l’accesso alla sala consiliare e agli uffici comunali ad una consigliera che aveva poi fatto causa.

La vicenda viene portata alla ribalta dai Cinque Stelle che tornano a denunciare «la lentezza esasperante» tipica di «un pachiderma» esibita dall’amministrazione comunale nel percorso che dovrebbe condurre all’adozione del Peba, acronimo utilizzato per il piano di eliminazione delle barriere architettoniche. «L’obbligo di redigerlo esiste dal febbraio del 1987 ed è stato ribadito dalla legge 104 sull’handicap del 1992. Quindi siamo indietro solo di 33 anni» ironizzano i consiglieri comunali Ruggeri, Mazzanti e Panaroni che appiccicano la metafora della «montagna che ha partorito un topolino» al Tavolo per l’accessibilità appena istituito dalla giunta. Sono passati quasi due anni dalla skarrozzata con cui sindaco e amministratori transitarono in carrozzina lungo le strade del centro e «le risposte alle nostre sollecitazioni continuano ad essere interlocutorie e inconcludenti» osservano i pentastellati, che vedono il traguardo ancora lontanissimo dopo che «l’unico fatto concreto in quasi sei anni» coincide con la nascita di un organismo essenzialmente votato «all’approfondimento dei contenuti del regolamento con cui disciplinare il profilo del garante per le persone con disabilità e dell’opportunità di introdurre la figura del disability manager».
Troppo poco anche a fronte di una giurisprudenza che la sentenza 3691/2020 della Cassazione, sventolata dai Cinque Stelle, potrebbe ora orientare. Dopo avere avuto partita persa in primo grado, una cittadina disabile eletta in consiglio comunale nient’affatto soddisfatta delle misure assunte, come montascale e utilizzo di una palestra per lo svolgimento delle sedute, e per questo dimissionaria, si è vista risarcire per 15.000 euro e soprattutto riconoscere dalla suprema corte il ruolo di vittima di discriminazione indiretta, quella che ricorre quando una persona con disabilità finisce in una posizione di svantaggio a seguito di atti e comportamenti anche apparentemente neutri. Alla base della decisione la convinzione dei giudici della Cassazione che l’obbligo di rimozione delle barriere architettoniche e il diritto all’accessibilità per le persone con disabilità non rappresentino mere enunciazioni di principio ma precetti da mettere in pratica.

di Andrea Amaduzzi da Corriere Adriatico del 02.03.2020

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