Il racconto. I cimeli di guerra restituiti dal Po

Il racconto. I cimeli di guerra restituiti dal Po

Uno scorcio dell’Isola degli Internati con il relitto della nave.

Carcasse di mezzi, armi, divise. Persino pugnali nepalesi. Dal letto del Grande Fiume riemergono oggetti del passato. E ognuno racconta una storia

Chi gli vive accanto sa che il Grande Fiume non dimentica, ma ha i suoi tempi. Che ci fossero ancora un paio di mezzi abbandonati dalle Panzerdivision della X e XIV armata in ritirata lo sapevano dal 2006. Ma hanno dovuto attendere sedici anni perché la siccità ne restituisse almeno uno. Quaranta centimetri di lamiera luccicanti al sole spuntavano dalla terra lo scorso 25 marzo, e non sono sfuggiti a Samuele Bernini, restauratore, mentre perlustrava in kajak il tratto di Po tra Sermide e Felonica, unico comune di ottomila anime sulla sponda sud nel Mantovano. La secca aveva abbassato di un paio di metri il livello dell’acqua come non accadeva da mezzo secolo. Era un parafango posteriore, il magnetometro ha rilevato il resto sepolto e nel giro di 48 ore, ottenuto il permesso dalla Sovrintendenza, trenta volontari – e due turisti svedesi – del Museo della Seconda guerra mondiale di Felonica hanno scavato e recuperato, in fretta prima della pioggia, lo scheletro del semicingolato Sd.Kfz.11 o quel che ne rimane. Una bestia da sette tonnellate, prima di essere mangiata dal fiume. Le tracce di vernice bianca testimoniano la campagna sul fronte in Russia.

Gli scavi che hanno portato alla luce il semicingolato nazista a Sermide il 27 marzo

Gli abitanti del paese nelle estati successive alla Liberazione, prima che il fiume lo inghiottisse, lo usavano da trampolino per i tuffi. Il ricordo era stato tramandato. Poi le fotografie aeree della Raf incrociate con un programma di georeferenziazione avevano confermato la presenza, sedici anni fa. Con un migliaio di euro di benzina per la scavatrice e parecchio olio di gomito, il residuato è ora tornato alla luce: un collezionista polacco ha offerto già trentamila euro, il museo della tecnica di Sinsheim vicino Stoccarda ha chiesto di esporlo. Per ora sta in un capannone, in attesa di essere scrostato sulle indicazioni dei Beni Archeologici, custodito dall’altro Indiana Jones della Bassa, Simone Guidorzi, laureato in matematica e direttore del museo bellico in paese. Quasi mille metri quadrati zeppi di cimeli ritrovati in zona, nelle acque come nei campi o nei solai. Strumenti di morte che i contadini avevano addomesticato in attrezzi di vita per altre battaglie, senza conoscere le parole riciclo né ecosostenibile.

Della guerra non si butta via nulla. Per esempio un lanciarazzi che faceva da grondaia in un casolare, la canna di una mitraglia da contraerea andata in pensione come architrave di una stalla, ruote di panzer invecchiate in una mola per affilare le falci, bossoli e pezzi di munizioni rinati come vasetti cimiteriali, imbuti, utensili per tostare l’orzo, fornelletti o marmitte da trattore. E centinaia di elmetti poi trasformati in pentole, vasi da notte o scaldini per il letto. Ogni pezzo di ferro è un filo di Arianna da tirare per arrivare a una storia. C’è perfino un pugnale, il kukri in dotazione dei temibili Gurkha nepalesi, che sul profilo della lama ha inciso un piccolo simbolo: sembra un’ugola e invece è un clitoride, per ricordare al guerriero che al ritorno il suo coraggio sarebbe stato premiato con una sposa. I cacciatori di passato hanno dissotterrato anni fa anche i resti di due aerei alleati. Sull’altro lato di piazza Municipio, di fronte al museo, c’è ancora un’insegna del Psi di Craxi, ma questo è il relitto di un altro naufragio.

In questo tratto di Po da Ostiglia a Ficarolo si buttarono, in fuga dagli americani, centocinquantamila soldati di sette divisioni tedesche tra il 20 e il 24 aprile del 1945. Molti di loro non toccarono la sponda nord e se li prese il Po invece dei liberatori. Prima di tentare la traversata, magari aggrappati a un pezzo di legno o una camera d’aria, si spogliavano di armi e divise, bruciavano i mezzi o li affondavano per non lasciarli al nemico. Lasciarono trentamila cavalli.

Attraversando la pianura tra capannoni e casolari, centri commerciali e pievi, filari di pioppi e concessionarie, si capisce perché Cesare Zavattini scrisse che la vera malinconia è originaria di queste terre e altrove sono imitazioni. Solo i campanili violano la linea di un orizzonte che non dà speranze per questa gente che vive a occhi bassi. Strade tirate col righello, odore di concime animale e ciliegi in fiore, campi di un verde scintillante irlandese nonostante la siccità, perché dove Dio si distrae l’uomo si ingegna.

Il relitto della nave scoperta nel 2005

“Apri mamma! Apri mamma!”. Fabrizio Rovesti, classe ’35, ricorda ancora quelle grida dei tedeschi, braccati e disperati, mentre bussavano alla porta di casa la notte del 24 aprile del 1945 a Gualtieri, il borgo di Ligabue in riva al Po. Poi va a suonare il piano della biblioteca, senza spartito. Non lo ha mai usato.

L’Isola degli Internati – oggi oasi naturalistica – fu così chiamata perché venne concessa a una trentina di ex prigionieri della zona di ritorno dalla Germania. Soldati che non avevano aderito alla Repubblica di Salò dopo l’armistizio, come Lino Bagnoli che poi fece il maestro elementare e ogni mattina faceva recitare agli scolari un articolo della Costituzione, laica preghiera da imparare a casa perché i genitori braccianti ascoltandola scoprissero di avere diritti perfino loro. Gli ex internati crearono una cooperativa, racconta l’architetto Luca Torelli, per allevare sull’isolotto pioppi e salici buoni da fare ceste e cappelli di vimini, cordame robusto, pali per le vigne.

Le due chiatte austroungariche Ostiglia e Revere con la pirodraga Dosolo invece venivano dal Mar Nero, Crimea, bottino della Prima guerra mondiale. Furono bombardate nel ’44 e i gualtieresi corsero a saccheggiare il carico di frumento prima che si inabissasse. Vezzani Odino, con tutto quel grano, raccontava di averci anche pagato la dentiera nuova di nonna. E anche la sua piccola storia è tornata a galla.

di Emilio Marrese da Repubblica

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