Barriere architettoniche negli uffici municipali: Il Comune ne risponde

Barriere architettoniche negli uffici municipali: Il Comune ne risponde

Subisce una discriminazione indiretta il disabile a cui sia impedito l’accesso agli uffici comunali per la presenza di barriere architettoniche (Cassazione civile, sentenza n. 3691/2020). Pubblicato il 28/02/2020.
Subisce una discriminazione indiretta il disabile a cui sia impedito l’accesso agli uffici comunali per la presenza di barriere architettoniche.
Questo è quanto chiarisce la Corte di Cassazione, sez. III civile, con la sentenza 15 febbraio 2020, n. 3691 (testo in calce).

Ormai rientra nella coscienza sociale il dovere collettivo di rimuovere ogni ostacolo all’esercizio dei diritti fondamentali delle persone affette da disabilità. Con la pronuncia in commento la Cassazione ribadisce che la limitazione del diritto all’accessibilità costituisce una discriminazione indiretta e conferma la condanna al risarcimento del danno inflitta al Comune, per tutto il periodo in cui il disabile non ha potuto accedere agli uffici, ossia sino all’installazione dell’ascensore.

LA VICENDA.
Una donna, eletta nel consiglio comunale, citava in giudizio il Comune e ne chiedeva la condanna al risarcimento del danno per la mancata rimozione delle barriere architettoniche.
La consigliera, infatti, affetta da disabilità, non poteva accedere agli uffici municipali e alla sala consiliare, stante la sussistenza di barriere ostative all’accesso di persone disabili. In primo grado, la domanda attorea veniva rigettata; l’ente comunale si difendeva sostenendo di aver provveduto ad installare un montascale nell’attesa della costruzione di un ascensore ad hoc; inoltre, aveva spostato le riunioni consiliari nella palestra della scuola, al fine di agevolare la partecipazione della consigliera.
In sede di gravame, i giudici ritenevano sussistente la discriminazione indiretta (ex art. 2, c. 3, Legge n. 67/2006) e condannavano l’amministrazione al pagamento del risarcimento dei danni, liquidati in 15 mila euro. Si giunge così in Cassazione.

RIFERIMENTI NORMATIVI.
Nella decisione in commento vengono messe in rilievo le seguenti disposizioni normative:
– Il DPR 503/1996 recante – il “Regolamento recante norme per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici”, in particolare l’art. 1 c. 1, contenente le definizioni, al secondo comma, stabilisce che per barriere architettoniche si intendono:
«a) gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea;
b) gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti […]».
– L’art. 1 c. 4 dispone che «Agli edifici e spazi pubblici esistenti, anche se non soggetti a recupero o riorganizzazione funzionale, devono essere apportati tutti quegli accorgimenti che possono migliorarne la fruibilità sulla base delle norme contenute nel presente regolamento.»
La Legge n. 67/2006, in materia di “Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”; in particolare l’art. 2 stabilisce che:
«Il principio di parità di trattamento comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità.
Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga.
Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone […]».
Invece, l’art. 3 garantisce la tutela giurisdizionale alle persone con disabilità vittime di discriminazione.

L’ELIMINAZIONE DELLE BARRIERE ARCHITETTONICHE.
Nella decisione in commento, la Corte ribadisce la propria costante giurisprudenza, affermando la natura cogente della disciplina normativa in subiecta materia. Infatti, la legge stabilisce:
– l’obbligo di rimozione delle barriere architettoniche;
– il diritto all’accessibilità per le persone con disabilità.
Si tratta di norme non meramente programmatiche, ma immediatamente precettive, che consentono alla persona disabile di ricorrere alla tutela antidiscriminatoria, nel caso in cui riscontri limiti o impedimenti all’accessibilità. Tale diritto è azionabile anche in assenza di una norma regolamentare che qualifichi un determinato stato dei luoghi come barriera architettonica (Cassazione 18762/2016). Inoltre, alla suddetta disciplina deve darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata, infatti, l’accessibilità – secondo la giurisprudenza della Consulta – è divenuta una qualitas essenziale anche nelle costruzioni private di nuova edificazione, ad uso abitazione civile. Ormai, rientra nel comune sentire «il dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici» (Corte Costituzionale 167/1999; Corte Cost.251/2008). La legge, pertanto, costituisce la fonte del diritto soggettivo all’accesso e, quindi, all’eliminazione delle barriere architettoniche, che va riconosciuto alle persone con disabilità nelle diverse situazioni previste dalle stesse norme di legge (Cassazione 18762/2016).
Per completezza espositiva si ricorda che con l’espressione barriere architettoniche s’intende qualsiasi ostacolo fisico che rappresenti fonte di disagio per la mobilità delle persone con capacità motoria ridotta o impedita. In altre parole, si tratta di ostacoli che limitano o impediscono la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti (art. 1 c. 1 DPR 503/1996).
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LA RATIO DELLA DISCIPLINA SULL’ELIMINAZIONE DELLE BARRIERE ARCHITETTONICHE.
L’eliminazione delle barriere architettoniche risponde all’esigenza di agevolare la vita di relazione delle persone con disabilità, in quanto i principi sottesi alla disciplina normativa «rispondono all’esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest’ultima nel significato, proprio dell’art. 32 della Costituzione, comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica» (Corte Costituzionale 251/2008). La suddetta finalità è chiaramente espressa dalla legge (art. 27 c. 1 legge 118/1971) ove l’eliminazione degli ostacoli all’accessibilità è disposta con il dichiarato intento di facilitare la vita sociale delle persone disabili.
In tal senso, depone anche il diritto comunitario, infatti, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, anche nota come Carta di Nizza, stabilisce che: «L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità» (art. 26).

DISCRIMINAZIONE INDIRETTA ED ELEMENTO SOGGETTIVO.
Il Comune sostiene di essersi attivato per il superamento delle barriere architettoniche, provvedendo all’installazione temporanea di un montascale, al lume di ciò, ritiene che non possa parlarsi di discriminazione indiretta. Sul punto giova chiarire che la norma (art. 2, Legge n. 67/2006) non richiede un comportamento doloso, ma postula la sussistenza degli elementi dell’illecito aquiliano (art. 3 c. 3 legge 67/2006), pertanto, è sufficiente un’inerte condotta colposa (Cassazione 18762/2016) come quella del Comune. Del resto, la nozione di discriminazione indiretta prescinde dalla volontà o intenzione discriminatoria da parte del soggetto agente, ossia dell’ente municipale.
Nel caso di specie, la Cassazione non esamina la doglianza, giacché essa postula un apprezzamento di fatto, volto ad accertare se il montascale provvisorio installato dall’ente municipale – in attesa del posizionamento dell’ascensore definitivo – fosse idoneo a garantire l’accessibilità all’edificio.

IL RISARCIMENTO DEL DANNO PER CONDOTTA DISCRIMINATORIA.
Il Comune, in sede di merito, era stato condannato al pagamento di circa 15 mila euro a titolo risarcitorio. Infatti, la tutela giurisdizionale accordata dalla legge (art. 3 legge 67/2006) a favore del disabile vittima di discriminazione, gli consente di rivolgersi all’autorità giurisdizionale per ottenere:
– la cessazione del comportamento discriminatorio;
– il risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale).
Del resto, i casi di condanne inflitte alle pubbliche amministrazioni per la loro condotta omissiva o inerte nell’eliminazione delle barriere architettoniche non costituiscono un caso isolato. A titolo esemplificativo, si cita il caso di un Comune condannato al pagamento del risarcimento liquidato in 1.500 euro a favore di una donna disabile, che non poteva accedere al cimitero. Nel caso di specie, l’ente si era attivato installando una piattaforma elevatrice che si era guastata nel giro di poco tempo e non aveva più provveduto in alcun modo. Tale comportamento inerte è stato ricondotto nell’alveo dell’art. 2, Legge n. 67/2006, in quanto integrante una discriminazione indiretta. (Tribunale Mantova Ordinanza 15.03.2019).
La liquidazione del danno patito dal disabile avviene in via equitativa. Ne consegue che la valutazione operata dal giudice di merito non sia suscettibile di esame in sede di legittimità. L’unica circostanza in cui risulta ammissibile il sindacato della Suprema Corte si verifica allorquando il giudice di merito non abbia spiegato il processo logico e valutativo da lui seguito nella determinazione del risarcimento (Cassazione 24070/2017; Cassazione 5090/2016). Pertanto, grava sul giudicante l’obbligo di indicare anche sommariamente:
– i criteri seguiti nella determinazione dell’entità del danno;
– gli elementi su cui ha basato la decisione del quantum (Cassazione 2327/2018).
Il giudice, però, non è tenuto a fornire una ricostruzione particolareggiata e minuziosa del rapporto tra i vari elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato (Cassazione 22885/2015). Nella fattispecie oggetto di scrutinio, la motivazione è stata ritenuta congrua, pertanto la Cassazione ha confermato la condanna al pagamento dei 15 mila euro stabiliti in sede di gravame.

CONCLUSIONI.
Le doglianze della ricorrente riguardavano la presenza di ostacoli che le precludevano l’accesso agli uffici del Comune. L’ente sosteneva di aver adottato tutti gli accorgimenti necessari a consentire la fruibilità degli spazi, anche ai disabili (ex art. 1 c. 4 DPR 503/1996). Invero tale circostanza è risultata smentita dai fatti; se davvero le contromisure adottate fossero state sufficienti, il Comune non avrebbe spostato le riunioni nella palestra della scuola per poi riportarle nel palazzo municipale, una volta ricevute le dimissioni della consigliera. Pertanto, la disabile, a cui l’accessibilità era stata limitata o impedita, è correttamente ricorsa alla tutela antidiscriminatoria ex art. 3 Legge n. 67/2006.
La Cassazione ricorda che per integrare la discriminazione indiretta non sia richiesta l’intenzionalità e la stessa possa derivare anche da comportamenti neutri o inerti, come la mancata adozione degli accorgimenti necessari a garantire l’accesso agli uffici municipali. Per questa ragione, i giudici di legittimità confermano la condanna al risarcimento del danno inflitta al Comune, per tutto il periodo in cui la donna non ha potuto accedere agli uffici, ossia per il tempo in cui si è protratta la colpevole inerzia dell’ente.

CASSAZIONE CIVILE, SENTENZA N. 3691/2020.

Da Altalex del 29.02.2020



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