La città di Como è imprescindibile da un grande personaggio della scienza: Alessandro Volta. Nel libro L’evoluzione della fisica, pubblicato nel 1938, Albert Einstein attribuisce alla scoperta di Volta un ruolo fondamentale nell’evoluzione della fisica indicandolo come il primo ad aver segnalato “la prima grave difficoltà” contro “l’interpretazione meccanicista della natura”. Citiamo questo pensiero di Einstein, perchè Incuriosire.it si ispira al pensiero einsteniano sulla necessità di essere curiosi.
Alessandro Volta nacque a Como il 18 febbraio 1745 da famiglia non ricca. Ricevette plausibilmente l’istruzione elementare a casa e frequentò poi per quattro anni il collegio dei gesuiti di Como – esperienza che lo influenzò in modo significativo. Nel 1762 si dedicò da autodidatta a studi scientifici e, tra il 1763 e il 1774, si concentrò in particolare sull’elettricità, elaborando una teoria generale, esposta in due memorie latine del 1769 (De vi attractiva ignis electrici ac phaenomenis inde pendentibus) e del 1771 (Novus ac simplicissimus electricorum tentaminum apparatus), in cui si contrappone a specialisti del settore. A sostegno delle proprie concezioni, nel 1775, inventò l’elettroforo. Tra il 1778 e il 1787 tornò sull’elettricità, affrontando i problemi della «capacità» elettrica, ideando il condensatore e dedicandosi alla valutazione quantitativa e alla standardizzazione delle misure della «tensione» elettrica. Le famose ricerche e i dibattiti sull’«elettricità animale» galvaniana, che lo guideranno verso la pila, lo impegnarono soprattutto tra il 1792 e il 1799, ma anche in seguito tornerà su aspetti centrali della contesa.
Le sue ricerche sulla combustione e la chimica delle arie ebbero una prima densa fase che si aprì, nel 1776, con la scoperta dell’«aria infiammabile nativa delle paludi» (metano) e giunse, entro il 1778, a definire un nuovo tipo di «eudiometria» ad aria infiammabile. Anche dopo, continuò a lavorare su questi temi e, nel 1790, perfezionò metodi e strumenti. Nel 1792 determinò con precisione la legge di dilatazione termica dell’aria e, nel 1795, le leggi della tensione del vapore acqueo. La sua carriera pubblica e scientifica passò indenne attraverso tutti i cambiamenti politici. Nel 1774, durante la dominazione asburgica della Lombardia, fu nominato reggente delle scuole pubbliche di Como e, dal 1776, professore di fisica sperimentale. Nel 1778 fu spostato sulla cattedra di fisica sperimentale nella celebre Università di Pavia, ove continuò la carriera fino al 1820, ricoprendo varie cariche anche sotto la dominazione francese (1796-1814) e dopo la Restaurazione (1815). Compì anche diversi «viaggi letterari» in Europa e rimase al centro di una fitta rete di contatti scientifici e istituzionali. Napoleone lo paragonò a Benjamin Franklin (1706-1790) e lo volle a Parigi a presentare la pila davanti all’establishment scientifico francese, assistendo lui stesso alle dimostrazioni (1801). Morì a Como il 5 marzo 1827.
Gli esordi scientifici
Vari membri della famiglia di Volta erano al servizio della Chiesa e, prima del matrimonio, anche suo padre aveva per un periodo percorso la strada religiosa nella Compagnia di Gesù. Nel 1757 Alessandro entrò nel collegio dei gesuiti di Como, frequentando un triennio di studi umanistico-retorici, seguito da un anno di filosofia, al termine del quale fu spostato a svolgere un secondo anno di filosofia in uno dei seminari cittadini. Quest’ultima iniziativa fu assunta dalla famiglia per allontanarlo dall’influsso gesuitico e ostacolare così la possibilità, che aveva a un certo punto considerato, di entrare nel loro ordine. Rifiutando gli studi giuridici auspicati dalla famiglia, diede corso alla propria vocazione scientifica immergendosi nello studio autodidattico, plausibilmente già a partire dal secondo anno filosofico.
Nel 1763, a soli diciotto anni, iniziò rischiosamente la propria carriera elettrica inviando lettere a due tra le massime autorità del settore, l’abate Jean-Antoine Nollet (1700-1770) e il padre scolopio Giambattista Beccaria (1716-1781), in cui affermava che solo il ricorso a una forza newtoniana di tipo attrattivo avrebbe permesso di stabilire una teoria fondamentale dell’elettricità. La mossa presentava varie implicazioni e pericoli perché nessuno dei due autorevoli studiosi aveva dato spazio alle forze newtoniane nelle proprie elaborazioni elettriche. Nollet, in modo esplicito, e Beccaria, in forma parziale e implicita, propendevano anzi per una giustificazione dell’elettricità secondo gli schemi del vecchio meccanicismo prenewtoniano. Concentrando gli sforzi sul piano concettuale, il giovane Volta formulò presto una teoria generale che fondava l’elettricità su una forza newtoniana attrattiva agente tra la materia dei corpi e un sottile fluido elettrico dotato di forte «elasticità». Non giustificata in termini di forze o altro, la tendenza elastica attribuita al fluido elettrico interviene in pratica come una nozione primitiva. Esposta nella citata memoria De vi attractiva ignis electrici del 1769, la teoria stabilita su queste basi voleva porsi come sistematizzazione generale alternativa rispetto alle elaborazioni elettriche di Nollet e, soprattutto, di Beccaria.
In questa fase Volta diede alle ricerche una forte impronta teorica, speculando sulle basi fondamentali dell’elettricità. Gli interlocutori scientifici da lui scelti – tra i quali Beccaria, che rispose con un gelido silenzio, e altre figure di rilievo come Lazzaro Spallanzani, Paolo Frisi (1728-1784) e Marsilio Landriani (1751-1815) – non raccolsero però il suo invito a un confronto su questioni teoriche. Anche in seguito il dibattito non decollò, nonostante una serie di tentativi che mise in atto, e neppure dopo l’ampio interesse che riuscì a suscitare con l’invenzione dell’elettroforo (1775). La perdurante freddezza sul piano teorico lo indusse a mutare strategia ma non per questo rinunciò alle proprie concezioni fondamentali, rintracciabili nei passi successivi, addirittura fino alla formulazione del nuovo concetto dell’elettrizzazione per semplice contatto (1792), che lo guiderà all’invenzione della pila. Solo in parte comprese dai contemporanei (e poco anche dagli storici), le componenti concettuali dell’elettricità voltiana sono passate in secondo piano, favorendo così l’immagine di un ricercatore dotato soprattutto di abilità sperimentale e manipolativa. Un giudizio limitativo, che va corretto considerando anche le sue concezioni teoriche sull’elettricità e il loro ruolo nell’invenzione degli strumenti.
Forti propensioni teoriche sono già evidenti nella prima opera superstite di Volta: un poemetto in esametri latini, composto plausibilmente entro l’inizio del 1763. La trattazione sviluppa una ricca serie di temi fisico-chimici diversi dall’elettricità: la polvere da sparo, l’oro fulminante, la combustione dello zolfo, la combustione e il calore dei corpi, i fuochi fatui. L’elettricità viene solo sfiorata in una decina di versi. Pur nelle non vaste dimensioni, la composizione elabora un piccolo sistema fisico che il giovane scienziato-poeta si sforza di stabilire su basi fisiche fondamentali, che riprende in larga misura dal vecchio meccanicismo di origine cartesiana, facendo cioè intervenire non le forze ma il moto, la forma e la «tessitura» della materia inerte. A ciò affianca anche i concetti di «elasticità» ed «espansibilità», che usa come proprietà primitive all’origine delle azioni attive che l’aria, i vapori e il calore sono in grado di esercitare.
L’ambito tematico e la forte impostazione teorico-sistematica del poemetto voltiano sono ricollegabili alla tradizione della poesia didascalica scientifica che fiorì in ambito gesuitico, in particolare in Francia tra la fine del Seicento e la metà del Settecento e nelle opere poetiche di Benedetto Stay (1714-1801), il quale fu in stretta relazione con il Collegio romano. Le sezioni chimiche del poemetto mostrano inoltre debiti verso la chimica meccanicista esposta da Nicolas Lémery nel Cours de chymie (1675). Le trattazioni dell’evaporazione, delle proprietà termiche dell’aria e del calore, con l’associato riferimento ai concetti di espansibilità ed elasticità, presentano analogie con quelle di Nollet (Leçons de physique expérimentale, 6 voll., 1743-1764). Questa fase iniziale ebbe un ruolo importante nella definizione stessa del programma di ricerca che nel corso della carriera sviluppò al di fuori dell’elettricità.
Le ricerche elettriche
Nel De vi attractiva ignis electrici Volta divide l’elettricità in cinque grandi capitoli: 1) attrazioni e repulsioni elettriche, 2) elettricità per strofinio, 3) «bottiglia di Leida», 4) «atmosfere elettriche», 5) «elettricità vindice». Le ricerche elettriche di Beccaria possono essere raggruppate sotto un indice simile e ciò mostra come il giovane Volta abbia seguito con tempestività e attenzione i suoi passi. A differenza di Beccaria, che si era servito di principi esplicativi particolari, Volta ritiene che tutti e cinque i capitoli siano riconducibili all’attrazione elettrica e pensa così di aver sopravanzato il celebre elettrologo. Nel De vi attractiva ignis electrici egli si sofferma soprattutto sull’«elettricità vindice» (introdotta da Beccaria per spiegare i fenomeni di reviviscenza elettrica che sorgono durante la separazione mutua di varie sequenze di lamine isolanti e conduttrici che non danno segni elettrici finché rimangono adagiate l’una sull’altra) e sulle «atmosfere elettriche» (a cui Beccaria riconduceva i fenomeni di influenza elettrica che i corpi esercitano reciprocamente in base a quella che oggi chiamiamo induzione elettrostatica).
La fisica elettrica di Volta fa intervenire in modo essenziale anche l’«elasticità» del fluido elettrico, ma questo importante punto rimane in ombra perché lo sforzo si concentra sull’articolazione dell’ipotesi dell’attrazione. Il legame con la scienza gesuitica emerge ora esplicitamente perché, a sostegno dell’attrazione elettrica, Volta si richiama alla Theoria philosophiae naturalis (17632) di Ruggero Giuseppe Boscovich. Un confronto rivela collegamenti con le sezioni in cui il gesuita aveva concettualizzato il calore e l’elettricità utilizzando fluidi sottili elastici e forze agenti a distanza, in particolare di tipo attrattivo. Sostenuto dall’autorità di Boscovich, il giovane Volta si contrapponeva a Beccaria e cercava di superare lo stesso Boscovich affrontando tematiche di cui il gesuita non si era occupato.
Dopo la fredda accoglienza riservata al De vi attractiva ignis electrici, nel 1771 Volta approfondì l’elettricità per strofinio nella memoria Novus ac simplicissimus electricorum tentaminum apparatus. La parte applicativa incontrò un certo favore ma il dibattito teorico rimase fermo. Nel 1775 inventò l’elettroforo per dimostrare l’insostenibilità della teoria beccariana dell’elettricità vindice e la correttezza della propria interpretazione, ma anche questo fu poco compreso. Lo strumento, costituito da uno «scudo» metallico adagiabile mediante un manico su uno strato isolante che a sua volta giace su un «piatto» metallico, riprende in effetti la struttura e si ricollega al tipo di argomentazioni che Volta aveva sviluppato nel De vi attractiva ignis electrici per l’elettricità vindice nel caso di una lamina isolante con due piani conduttori applicati sulle facce.
La sordità teorica dell’ambiente portò Volta a cambiare strategia scegliendo di dedicarsi soprattutto alla soluzione di problemi elettrici che suscitavano interesse nei suoi interlocutori. Non abbandonò però le teorie già elaborate, che possono in effetti essere rintracciate nelle sue ricerche successive. Stimolato da conversazioni con Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799), nel 1778 si occupò del problema della capacità elettrica dei conduttori isolati. Insieme alla capacità egli introduceva ora la nuova nozione della tensione elettrica e cercava di misurarne il valore. Nella trattazione intervengono le sue idee sulle atmosfere elettriche e si nota un riemergere della concezione elastica del fluido elettrico. Nel 1784 egli stabilirà la relazione Q=CT tra la carica (Q), la capacità (C) e la tensione (T) di un corpo elettrizzato.
Volta sviluppò il condensatore partendo dalla segnalazione di uno studioso dilettante che uno scudo di elettroforo scaricato e rimasto a lungo adagiato su un piano di pelle dava sorprendentemente una piccola scintilla quando veniva sollevato. Studiando questo fenomeno, Volta ebbe l’idea di sfruttarlo per realizzare uno strumento capace di rendere sensibili le elettricità deboli. La struttura del condensatore, realizzato in varie versioni tra il 1780 e il 1783, ricalca quella dell’osservazione originaria: un disco metallico munito di manico che si adagia e si separa da un piano sottostante realizzato con vari materiali. Nelle spiegazioni di Volta intervengono elementi ricollegabili alla teoria dell’elettroforo, alle atmosfere elettriche e alla più recente teoria della capacità elettrica.
Volta tornò sul problema della misura della tensione elettrica in una serie di lettere sulla meteorologia elettrica dirette a Georg Christoph Lichtenberg (1742-1799). Esaminati i principali apparecchi elettrometrici disponibili, Volta introduce migliorie e descrive un suo nuovo elettrometro che, sfruttando la divergenza di due pagliuzze vegetali, possiede la proprietà di rispondere linearmente alla tensione su tutta la scala di lettura. Volta descrive anche una speciale bilancia elettrostatica che gli consente di fissare un’unità di tensione facilmente riproducibile e realizza inoltre una serie di elettrometri di differente sensibilità per misurare la tensione su un’ampia scala di valori. Riproducendo l’unità di tensione e usando gli elettrometri descritti, qualsiasi ricercatore sarebbe stato in grado di fare misure coerenti e comparabili della tensione elettrica. Apparsi a stampa tra il 1787 e il 1788, questi risultati divennero noti quasi in contemporanea con le prime notizie sulle nuove ricerche elettrostatiche di Charles-Augustin de Coulomb (1736-1806). Volta affermò che la propria impostazione conduceva «assai più innanzi» e ciò non era del tutto privo di motivazioni, perché i risultati di Coulomb furono in generale molto difficili da capire e da riprodurre.
Le arie
Nel 1774 Volta aveva iniziato a studiare il tema allora emergente della chimica delle arie. All’inizio si ispirò soprattutto alle concezioni flogistiche di Joseph Priestley (1733-1804). Nel 1776 diede un contributo importante isolando l’«aria infiammabile nativa delle paludi» (metano). Questa scoperta lo stimolò a tornare sul tema a lui caro della combustione, considerando ora in particolare quella delle arie. Tra i vari risultati, esposti in sette lettere pubblicate nel 1777, Volta avanzava l’idea di usare la scintilla elettrica per accendere le arie infiammabili e valutava i possibili impieghi del potere esplosivo delle miscele di «aria infiammabile metallica» (idrogeno) e «aria deflogisticata» (ossigeno). Combinando i due sistemi, Volta esplorava la possibilità di applicazioni belliche descrivendo in particolare «bombe ad aria tonante» e diverse versioni della «pistola elettrico-flogopneumatica». Verificata l’inferiorità della nuova pistola rispetto a quelle normali, con una brillante mossa Volta la riconvertì presto in uno strumento filosofico: l’«eudiometro ad aria infiammabile».
L’eudiometria era una tecnica che Priestley aveva da poco ideato per valutare quantitativamente la «respirabilità» dell’aria. Il suo sistema sfruttava la diminuzione di volume che l’aria atmosferica subisce in proporzione alla sua respirabilità quando reagisce spontaneamente con l’«aria nitrosa» (ossido di azoto) in presenza di acqua. Volta propose un’eudiometria ad aria infiammabile metallica con innesco elettrico della combustione. Anche in questo caso il volume della miscela diminuisce proporzionalmente alla respirabilità dell’aria atmosferica saggiata. Volta aumentò la precisione dei suoi nuovi eudiometri e rese «comparabili» le misure ottenute con differenti apparecchi e da diversi sperimentatori. L’eudiometria fu il settore in cui la quantificazione, la precisione e la nozione della comparabilità delle misure comparvero per la prima volta nella fisica voltiana.
Nel 1783 pubblicò la voce eudiometro, insieme ad altre da lui composte, nella traduzione italiana del Dictionnaire de chymie di Pierre-Joseph Macquer (1718-1784); nel 1790 pubblicò una lunga memoria in cui ribadiva i risultati precedenti, ma dando più rilievo alla quantificazione e alla precisione delle misure. Sin dal 1778 Volta aveva notato che nei suoi eudiometri la combustione tra aria metallica e aria deflogisticata formava un «vapor nebuloso» ma non si rese conto che si trattava di vapore acqueo. Questo passo fu compiuto da Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) nel 1783, considerando la reazione come un processo di sintesi chimica tra le due arie con produzione di acqua. Orientato dalla chimica flogistica e non ancora provvisto dei nuovi metodi di controllo ponderale introdotti da Lavoisier, Volta cercava precipitati di natura terrosa o salina e non vide l’acqua. Non accettò subito la nuova chimica di Lavoisier e, al pari di molti chimici tedeschi, cercò a lungo di mantenere la nozione del flogisto. Nel 1798 accettò finalmente le innovazioni chimiche di Lavoisier.
L’elettricità animale
Nel De viribus electricitatis in motu musculari (1792) Luigi Galvani, basandosi sui celebri esperimenti con le rane, argomentava che la contrazione muscolare era molto probabilmente dovuta interamente all’elettricità. Galvani paragonava il sistema nervo-muscolo della coscia di rana a una bottiglia di Leida carica: chiudendo il circuito con un arco metallico tra il nervo (positivo) e l’esterno della coscia (negativo), la scarica dell’elettricità animale accumulata produceva la contrazione. Lo stesso Galvani fece notare che le contrazioni erano più energiche se si usava un arco fatto di due metalli differenti. Inizialmente incredulo, Volta passò rapidamente al «fanatismo» per Galvani, giungendo poi a delineare nel 1792, dopo accurate indagini, un quadro antitetico rispetto a quello galvaniano. Volta estese e variò gli esperimenti di Galvani adottando anche valutazioni di tipo quantitativo, che lo portarono presto ad avere dubbi sull’elettricità animale intesa alla maniera di Galvani. A suo giudizio, l’elettricità animale non doveva differire da quella fisica comune e c’era allora una fortissima discrepanza tra il vigore della contrazione muscolare e l’impercettibilità dei segni elettrici durante la scarica della bottiglia di Leida ‘animale’ ipotizzata da Galvani. C’era anche il fatto che l’arco bimetallico generava contrazioni più forti, mentre la scarica della bottiglia di Leida era indifferente alla natura mono o bimetallica dell’arco scaricatore. Stimolando solo i nervi con elettricità debolissime, si potevano inoltre ottenere contrazioni energiche.
Da questa serie di risultati, Volta concluse che l’elettricità non poteva essere l’agente diretto della contrazione muscolare e propose una sequenza causale a due stadi distinti: l’elettricità, animale o artificiale, si limita a stimolare l’«azione nervosa» e solo in seconda battuta questa attiva la più energica «irritabilità» contrattile del muscolo. Lo schema voltiano mostra forti analogie con le teorie dell’«irritabilità» e della contrazione muscolare già elaborate da Albrecht von Haller (1708-1777).
Volta ampliò gli esperimenti eseguendoli sul proprio corpo e costatando in particolare che un arco bimetallico applicato tra la punta e il piano della lingua non induce contrazioni ma suscita sensazioni gustative acide o basiche secondo l’ordine dei metalli. Da ciò egli ricavò che a stimolare i nervi del gusto non fosse l’elettricità animale della lingua ma un’elettricità messa in moto dal semplice contatto tra i metalli e i tessuti conduttori umidi della lingua. Contro le leggi elettriche accettate, egli stabilì che i metalli sono non solo conduttori ma anche «motori» dell’elettricità nei punti di contatto con i conduttori umidi. Volta arrivò a concepire il contatto come un caso di strofinio prodotto nella direzione normale anziché tangenziale e risulta così evidente che le concezioni che da tempo aveva sull’elettricità per strofinio ebbero un ruolo nella formulazione della nuova idea dell’elettromozione per semplice contatto. Entro l’estate di quel febbrile 1792 Volta generalizzò la propria teoria dell’elettromozione, estendendola anche al contatto tra due conduttori umidi eterogenei. Fino all’invenzione della pila il dibattito con i sostenitori dell’elettricità animale di Galvani attraversò diverse complesse fasi senza una risoluzione definitiva perché la variazione delle situazioni sperimentali e delle ipotesi ausiliarie permetteva sempre di argomentare a favore dell’elettricità animale galvaniana o del contatto voltiano.
La pila
Volta inventò la pila nel tentativo di rendere tangibile l’elettricità di contatto. Nel 1796 generalizzò ulteriormente la teoria dell’elettromozione ampliandola al contatto tra due metalli eterogenei. Con tecniche basate sul principio del condensatore, rese sensibile la debole elettricità sbilanciata dal contatto intermetallico. Poiché vi erano ancora degli scettici, cercò altre strade. Da qualche anno l’attenzione degli studiosi si concentrava sulla torpedine, un pesce che dava forti scosse elettriche e che era considerato una prova diretta dell’elettricità animale. Si sapeva che l’organo elettrico dell’animale è composto da piccole colonne verticali, costituite a loro volta da una serie di lamelle orizzontali di tessuti eterogenei sovrapposti. Nel 1797 William Nicholson (1753-1815) aveva suggerito che ciascuna delle strutture lamellari dell’organo fosse un piccolo elettroforo voltiano e che l’animale producesse la scarica facendo scattare tutti gli elettrofori all’unisono.
Non conosciamo in dettaglio come Volta giunse a inventare le pila ma, nella famosa lettera del 20 marzo 1800 con cui rese nota la nuova invenzione, egli criticava l’analogia di Nicholson e spiegava la scarica della torpedine in base alla propria teoria del contatto metallico. Nella forma «a colonna» lo strumento è costituito da coppie circolari bimetalliche, per es. rame-zinco, sovrapposte e separate l’una dall’altra da uno strato umido. Secondo Volta, l’elettromozione spinge il fluido elettrico nei punti di contatto intermetallico, mentre lo strato umido funge da semplice conduttore che lascia passare il fluido da una coppia bimetallica a quella successiva. Aumentando il numero delle coppie, l’apparecchio dava una scarica elettrica simile a quella della torpedine. La grande invenzione che stava per rivoluzionare la chimica e la fisica fu dunque concepita da Volta come «organo elettrico artificiale» che imitava l’«organo elettrico naturale» della torpedine agendo in base all’elettromozione metallica. Volta non accettò l’interpretazione chimica della pila, ma è vero, d’altra parte, che la sua elettricità di contatto, riconosciuta alla fine come effetto fisico reale, fu a lungo contrastata da molti. L’intreccio straordinariamente complesso di fenomeni fisici, chimici e biologici implicati nelle vicende dell’elettricità animale e della pila richiederà molti decenni per essere districato.
da Treccani Online
Lascia un commento